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Mourinho e i nemici, il racconto di una stagione incredibile. Le sfide decisive e il vento contrario. Sartre e i calamari. L’invidia dei gufi, Palazzi a bordo campo, il calcio di Totti, il Grande Slam, il delirio, l’addio.

mercoledì 9 giugno 2010

El purtava i scarp del tennis

Un derby dunque diviso tra dramma e tragedia, ma che verrà anche ricordato per una farsa, un episodio di comicità rara per un campo di calcio.
Non è semplice ricostruire l’accaduto, anche perchè le testimonianze dei protagonisti non sono del tutto concordanti. Comunque è un fatto che alla mezz’ora Gattuso si infortuna e, invece di essere sostituito, resta in campo il tempo necessario per combinare parecchi danni, anche a causa delle condizioni non perfette. Durante quei lunghi minuti il giocatore è più impegnato a inveire contro la panchina per il mancato cambio, che a tamponare le avanzate dei centrocampisti dell’Inter.
Nodo da sciogliere sarà la vicenda che ha segnato inequivocabilmente il risultato, ovvero la vicenda Gattuso-Seedorf-Leonardo. Galliani, che non ha gradito l'accaduto, ha già chiesto lumi a Leo, in un resoconto scritto su quanto realmente accaduto. Il mister ha rallentato la sostituzione? Oppure è stato Gattuso a chiedere di rimanere in campo? Oppure Seedorf ad essere troppo lento nella preparazione al cambio? La responsabilità investe uno dei tre, ma potrebbe essere equamente condivisa. Sapere o meno dove nasce l'equivoco servirà a poco in casa Milan, una reazione d'orgoglio sarebbe più che gradita. Nessuno vuole la "testa" del colpevole, tutti vogliono cancellare al più presto il ricordo di un derby che ha ferito oltre modo l'animo dei tifosi. [milannews.it, 31 agosto 2009]

Seedorf ai microfoni di Milan Channel si difende così: “Sull'1-0 doveva entrare Ambrosini. Quando c'è stato il rigore, mi sono andato ad allenare nel tunnel, con le scarpe da ginnastica. Non con le ciabatte come ha scritto qualcuno che mi sembra un'offesa alla mia professionalità. Avevo le scarpe da ginnastica ..”

Il risveglio

In questa atmosfera di pronostico capovolto, giunge l’attesa notizia dell’ingaggio di Wesley Sneider. L’olandesino arriva a Milano, si allena una volta con la squadra e sembra già tanto che sia tra i convocati. Ancora a poche ore dal fischio d’inizio nessuno lo considera per una maglia da titolare.
Meno di 12 ore al fischio iniziale di Rizzoli, che libererà la voglia di derby dei giocatori di Inter e Milan, nonché dei loro tifosi. In questo momento, nonostante alcuni indizi lasciati per strada ieri da Mourinho, non è ancora ben chiaro con quale undici e con quale schieramento la formazione nerazzurra si presenterà sul terreno di gioco. E conoscendo lo Special One, anche se la formazione fosse scontata, sarebbe lecito attendersi una sorpresa dell’ultimo secondo. In base agli ultimi esperimenti in allenamento, Mou sembrerebbe orientato a proporre il solito rombo a centrocampo, pur se mancheranno i due interpreti titolari dei ruoli di vertice: Cambiasso e probabilmente Sneijder (che ha chance di partire dalla panchina in caso di convocazione) [fcinternews.it, 29 agosto 2009]

E invece, contro ogni aspettativa, Sneijder è nell’undici di partenza comunicato nel pre-gara dallo Special One. “Moratti mi paga anche per avere coraggio” sarà il commento del tecnico portoghese.
I derby che ricordiamo si immergevano in un odore di caldarroste, di un autunno che volgeva all’inverno, o magari al ritorno avevano il sapore dei primi gelati, di una primavera che si affacciava. Un derby così però in campionato non c’era mai stato: le corse dai traghetti, il clacson per liberarsi in autostrada, il ritardo del volo che fa paura.
Qualcuno ci segue ancora dalle vacanze, il sole sulla pelle, sapore di mare, sapore di sale: il nuovo gusto del derby [Fabio Caressa, incipit della telecronaca Sky, 29 agosto 2009]

Se c’è un momento in cui tutto è iniziato, forse è proprio la sera del 29 agosto. Come dicevamo, il Milan arriva a questa partita da favorito, in modo del tutto inopinato, se si guardano i valori in campo. Potenza dei media e della gran voglia di Inter perdente che si respira in Italia.
Mou, con Cambiasso indisponibile (scusate se è poco) schiera Milito ed Eto’o di punta e mette nuovo arrivato Sneijder tra le linee. Dietro di loro, un centrocampo a tre, con Zanetti, Thiago Motta e Stankovic.
La partita è equilibrata per una ventina di minuti, poi il gioco dell’Inter prende il sopravvento. È una splendida azione che porta Milito a servire Motta per l’1-0. Poi rigore di Milito (fallo di Gattuso), espulsione di Gattuso, e 3-0 di Maicon che chiude il primo tempo e la partita. Superiorità schiacciante, tifosi interisti (in trasferta) in estasi e Sneijder che ispira e corre, tampona e contrasta, si smarca e cuce la manovra, trovandosi coi compagni come se ci giocasse insieme da anni.
Nel secondo tempo, il quarto gol di Stankovic. Fischio finale: apoteosi per l’Inter, per i rossoneri un incubo che si avvera.

giovedì 3 giugno 2010

Tecnica, tranquillità e tattica

Al di là di ogni iperbole sulle doti balistiche di Milito e sulla “specialità” di Mourinho, è utile cercare un fondamento razionale ad una impresa di questa portata. Come ha potuto l’Inter tenere dietro Roma e Milan in campionato, eliminare in Coppa Italia la Juventus e la Fiorentina, dominare in Champions sui campioni di Inghilterra, Spagna e Germania, vincere le finale di Madrid e soprattutto quella di Roma, nonostante il clima infame?
Il primo mattone è stato sicuramente mantenere intatte le prerogative che hanno consentito a questa squadra di vincere quattro scudetti di fila: la forza fisica e la determinazione.
Nonostante la perdita di Ibra, la squadra ha mantenuto una supremazia in termini di centimetri e chili su quasi tutti gli avversari. Soprattutto gli innesti di Lucio e Thiago Motta hanno consentito all’Inter di continuare a essere una squadra di colossi.
La grinta mostrata quest’anno poi è stata persino superiore a quanto visto in precedenza.
Rispetto all’anno passato la squadra ha però una tecnica superiore. Palleggio disinvolto, giro-palla sicuro, azioni in verticale con passaggi di prima, sempre palla a terra (vedi il primo gol del derby di andata), anche negli spazi stretti. L’Inter di Ibra non aveva certo questa capacità di gioco, l’arrivo di giocatori come Eto’o, Motta, Pandev, Milito ha consentito la metamorfosi.
Un altro aspetto fondamentale della crescita della squadra è la tranquillità. Capita in parecchie partite, durante la stagione 2009-2010, di trovarsi in situazioni davvero difficili. Sotto di due gol a Bari, in svantaggio col Siena, col Barcellona in casa, persino col Chievo alla penultima di campionato. In questi momenti l’Inter mostra sempre una serenità assoluta.
Sicuramente su questa maturazione ha lavorato Mourinho nello spogliatoio. Non solo, l’allenatore riesce anche a proteggere la squadra dalle tensioni eccessive, spostando, prima di ogni incontro decisivo, l’attenzione dei media su falsi obiettivi.
Il cucchiaio d’oro di Rosella Sensi, il rumore dei nemici, la convocazione di Balotelli, persino le sue dimissioni. Nei prepartita che contano la squadra è isolata, blindata, nessuna polemica investe i giocatori, nessuna tensione proviene dall’esterno. Mou in conferenza stampa detta l’agenda, prepara sempre qualche nuova esca profumata e luccicante. E i media abboccano.
L’ultima chiave della stagione trionfale, anche questa dovuta a Mourinho, è quella tattica. Il portoghese gioca con quattro difensori (ma quando Maicon avanza, diventa una difesa a tre), due centrocampisti bassi e una punta davanti. Dietro Milito, una linea di tre giocatori, attaccanti di ruolo, centrocampisti di posizione, a volte anche difensori nei momenti difficili.
L’idea che ci sta dietro è che per dare compattezza alla squadra non occorre essere rubapalloni di professione, basta tenere la posizione ed essere disposti a un po’ di sacrificio. Questo consente all’Inter di non scoprirsi e, quando riesce a ripartire, con Sneijder a ispirare Eto’o, Milito e Pandev, è davvero dura per tutte le difese.
Viene in Italia ad insegnare calcio, Josè Mourinho. Il suo capolavoro tattico troverà emulatori insospettabili.
[Dice Chiellini:] “ (..) La nostra difesa a 4? L' Inter difende a 4, ma quando a destra Maicon attacca, Chivu scala al centro e diventa una linea a 3”. Nel pomeriggio il campo ha tradotto le parole di Chiellini in una lunga prova di 4-2-3-1, con Maggio alla Maicon e Zambrotta alla Chivu (in attesa appunto di Chiellini), con la promozione di Bonucci titolare, col ripristino della raffinata e sostanziosa coppia di centrocampo Pirlo-De Rossi e soprattutto con Marchisio alla Sneijder (..)” [Enrico Currò, La Repubblica, 29 Maggio 2010]

martedì 1 giugno 2010

Vincere tutto

Ora non dobbiamo mollare e dobbiamo crederci, pur restando consapevoli di tutte le difficoltà che andiamo a incontrare, ma queste fanno parte del gioco. Certo, la sconfitta con la Samp non ci voleva proprio, soprattutto per come è maturata, dopo un primo tempo spettacolare, con tante occasioni da gol. Ora dobbiamo guardare avanti, senza pensare a quello che accade, il nostro dovere è quello di cercare di vincere e poi vedere quello che succede. [Francesco Totti, Corriere dello Sport, 30 Aprile 2010]

“La nostra prima mezz'ora è stata buona. Poi è arrivato il goal dell'Inter, frutto magari di qualche nostra disattenzione, e abbiamo cominciato a fare fatica. Ma fino al rigore, nato da una punizione a nostro favore, il Milan aveva comunque tenuto il campo. E' finita 4-0 e non c'è più nulla da dire, ma resta una gara particolarissima. Dobbiamo rivedere alcune cose, sono convinto però che la nostra sia una buona squadra”.
“[Del ritardato cambio di Seedorf] smettiamo di parlarne, questi sono tormentoni tutti italiani. Guardiamo avanti e pensiamo al futuro. Dispiace perdere il derby, ma siamo pronti a ripartire subito da Livorno, per poi buttarci nel nostro habitat naturale che è la Champions”. [Intervista di Adriano Galliani a Milan Channel, 1 Settembre 2009]

“Galliani ha spiegato come il Milan è venuto fuori dalla presunta crisi dopo la settima giornata attraverso la fiducia e la compattezza del gruppo - argomenta il vicedirettore generale della Juve - ed è quello che cercheremo di fare anche noi. Il gruppo è compatto. Adesso abbiamo un tour de force importante, quindici, venti giorni, e speriamo di avere il rientro di alcuni giocatori importanti. Quelli che ci danno quella fisicità che, unita alla tecnica e alla classe, può essere determinante”.
“È vero, nelle ultime partite possiamo aver fatto poco, ma perché nelle prime sette abbiamo fatto più di tutti? La squadra era la stessa. È inutile e facile parlare stando seduti davanti a una scrivania e a un monitor. Non parliamo di dati, il calcio si guarda con gli occhi, non con i numeri”. [Intervista a Sky di Roberto Bettega, 17 Gennaio 2010]

Totti, Galliani, Bettega. Dichiarazioni di personaggi molto diversi, che insieme totalizzano parecchi decenni di calcio a grande livello, in vari ruoli. Personaggi tutti vincenti e acclamati a vario titolo per essere avere occupato, con le loro squadre, i vertici del movimento calcistico mondiale.
Eppure se c’è una cosa che accomuna queste figure distanti, è proprio il fatto di non conoscere la gioia del Grande Slam. Loro, come tanti altri, sanno cosa significa vincere, vincere per lunghi periodi, dominare gli avversari, celebrare ed essere ricordati negli annali. Eppure vincere tutto è totalmente diverso.
Si esponeva a critiche, anche plausibili e motivate, Josè Muorinho quando, tre giorni prima di partite chiave di campionato, schierava la formazione titolare in Coppa Italia. E invece aveva ragione lui: scegliere tra i trofei, come molti fanno, è una scelta perdente. E poi non era questo l’obiettivo dei ragazzi di Moratti a inizio anno.
L’obiettivo non era una stagione vincente, non era ritornare sul tetto d’Europa dopo quarantacinque anni, non era il quinto scudetto consecutivo, non era la sesta coppa nazionale.
Mourinho dall’inizio dell’anno ha inseguito il trionfo totale, la stagione unica e irripetibile, un epico triplete che inserisce l’Inter dello Special One tra il ristrettissimo numero di squadre (nessuna italiana) in grado di portare a termine un’impresa così.
E per gli altri, cosa significa il trionfo neroazzurro? A Radio MilanInter, il 24 Maggio, durante la trasmissione Controcalcio, la conduttrice legge il messaggio lucido e accorato di un tifoso milanista, Daniele da Gallarate, uno che ha fatto presto a capire davvero cosa è successo, uno che lucidamente è in grado di prevedere il futuro che lo aspetta: “A questo punto, spero venga presto la fine del mondo”.

Il contesto

Per capire il delirio bisogna capire il contesto. Vincere fa sempre piacere, ma vincere tutte le competizioni in una stagione è l’esperienza più esaltante che un tifoso possa sperare di vivere.
E tuttavia questo non basterebbe ancora a giustificare l’impazzimento della folla nerazzurra. Il vero gusto di queste vittorie è il sapore dell’atto eroico, smisurato, disumano, estremo; molto di più di un fatto sportivo, un risultato ottenuto oltre ogni umana possibilità e ogni ragionevole aspettativa. Queste vittorie sono rese esaltanti dalla forze formidabili che hanno cercato di fare in modo, a tutti i costi, che l’Inter non vincesse.
Gino & Michele sono due umoristi affermati, ma tornati da Madrid, intervistati da Luigi Bolognini di Repubblica, fanno considerazioni molto serie: “Non avremmo mai pensato di assistere a una festa così grande e prolungata. Ci ha molto sorpreso, perchè il tifoso interista ha fama di essere (..) tranquillo, relativamente calmo. [Tra le cause] le tensioni di tutta una stagione. Riguardavano altre competizioni, ma ci sono state, e forti, c’era un’aria come se si volesse far vincere la Roma”, “Sembrava che il discorso fosse: ok, vincerà l’Inter, ma ingiustamente”, “[Mourinho] fa bene ad andarsene, e proprio per i motivi di cui sopra: c’è troppa tensione in Italia, troppe ripicche (..)”.
Non occorre qui ricordare calciopoli, ma anche negli ultimi anni il vento contrario, i nemici (così li ha definiti Mourinho), il sistema calcio in Italia, i media, la cultura, la politica (basta leggere alcuni cronache parlamentari scritte subito dopo Lazio-Inter), un’intera nazione, hanno tifato contro, sperato contro, lavorato contro.
A che serve Mourinho? A cosa serve pagarlo 11 milioni netti (22 lordi) l'anno? Sono soldi ben spesi quelli per il Vate portoghese, se poi producono solo conferenze stampa effervescenti (naturali?) o polemiche sollevate ad arte se deve fare lezioni su regolamenti che non conosce o lezioni di vita al suo Balotelli, trattato proprio da zio Josè come un bullo? Non lo si paga tanto, invece, per procedere alla trasformazione eugenetica dell'Inter? Ovvero per l'attraversamento del deserto da Ibra-dipendenti a Ibra-indipendenti, con soddisfazioni europee? (..)
I due anni di Champions di Mourinho con l'Inter, in particolare quelli dei gironi, sono non degni della storia dell'Inter, che non vince una Champions da 45 anni ma che con Cuper di recente era arrivata con maggiori squilli di tromba almeno alla semifinale. E allora torniamo al quesito: ma serve proprio 'sto Mourinho? [Alvaro Moretti, TuttoSport, 25 Novembre 2009]

Questa è la vera causa dell’abbandono, triste ma dolcissimo, di Mourinho (“Non sono felice nel calcio italiano. Perché non mi piace e perché io non piaccio al calcio italiano", “Resterò sempre interista”, “Quest’anno ho vissuto cose del calcio italiano che non mi sono piaciute”). Josè si aspettava di misurarsi contro altre squadre di calcio, invece si è trovato un intero paese da sconfiggere. Lui lo ha sconfitto, l’Italia ha perso, l’Inter ha vinto: un’impresa così, che poco ha a che vedere con lo sport, ha senso solo resta unica. Mourinho deve andare, non ha scelta.
Quando in futuro si utilizzerà l’espressione “l’Inter di Mourinho”, si farà riferimento ad una squadra epica, che ha vinto l’impossibile, ma che soprattutto, unica nella storia, non ha perso mai.
Una scena toccante quella ripresa dalle telecamere della Tv spagnola dopo la vittoria della Champions League da parte dell’Inter. L’allenatore Josè Mourinho saluta da lontano il giocatore Materazzi e sale in macchina, poi però ci ripensa e fa fermare l’auto. I due si abbracciano lasciandosi andare a lacrime amare.
Materazzi ha poi spiegato alla Gazzetta dello Sport quello che gli ha detto Mourinho prima di entrare in campo negli ultimi due minuti della partita: “Eri nella puta finale del Mondiale e ora sei in campo qui a Madrid” ha detto l’allenatore. Il giocatore ha aggiunto: “Ci siamo parlati prima che io entrassi. Con la maglia in bocca gli ho detto ‘Resta, nessuno ti amerà come qui’, lui piangendo ha detto ‘Devo andare’, poi per fortuna che sono entrato altrimenti avrei pianto anche io. Dopo la partita ci siamo abbracciati piangendo insieme e senza dire una parola”. [Alberto Cassina, voceditalia.it, 26 Maggio 2010]


L’addio del portoghese è un prezzo che i tifosi dell’Inter pagano volentieri, in cambio di un trionfo che, anche per come è stato ottenuto, contro tutto e contro tutti, non potrà mai essere avvicinato da nessuno.

Giacinto, Peppino e la coppa

Javier Zanetti è nato a Buenos Aires il 10 agosto 1973. Discendente di immigrati italiani, Zanetti esordisce nel campionato argentino a 20 anni. Alla sua prima stagione gioca 37 partite nel Banfield, segnando una rete. Dopo un altro anno con gli argentini (29 presenze e tre goal), è acquistato dall'Inter, voluto dal presidente Massimo Moratti su segnalazione di Angelillo.
Il 22 Maggio 2010, il giorno della finale di Madrid, Zanetti ha un’età in cui molti giocatori hanno già appeso le scarpe al chiodo, oppure si trascinano per i campi. E’ la sua settecentesima partita ufficiale in maglia nerazzurra.
Con l’Inter ha vinto cinque scudetti (2005-2006, 2006-2007, 2007-2008, 2008-2009, 2009-2010), tre Coppe Italia (2004-2005, 2005-2006 e 2009-2010), tre supercoppe italiane (2005, 2006 e 2008), la Coppa UEFA 1997-1998.
Nel secondo tempo, quando Josè Mournho decide che è ora di mettere fine alle incursioni sulla destra di Robben, palesemente troppo veloce per Chivu, pensa proprio a lui. Un trentasettenne a marcare il più guizzante degli attaccanti avversari: sembra un azzardo, ma il capitano nei 27 minuti che restano non si farà mai saltare.
Meno di un’ora dopo, Zanetti è più o meno nella stessa zona di campo dove poco prima annullava Robben. Percorre qualche decina di metri e si avvicina alla curva nord del Bernabeu, dove sono stipati circa 25.000 supporter nerazzurri in delirio. Prima della partita la curva ha disegnato una meravigliosa coreografia, surclassando anche nel tifo i rivali tedeschi. “E ora, insieme, coroniamo il sogno” era lo slogan, e ora il sogno si sta avverando. Il sogno è tra le mani del capitano, la coppa attesa per quarantacinque anni, il terzo trofeo della stagione, dopo campionato e Coppa Italia.
Il capitano, giunto vicinissimo alla recinzione, depone delicatamente il trofeo luccicante sul prato, poi volta le spalle e si allontana verso il centro del campo. Proprio così, si volta e se ne va, senza neanche guardarla. Dev’essergli costato. La coppa è lì per terra, nessuno intorno, incustodita. Zanetti si gira verso la curva, tende le braccia in avanti e punta gli indici verso i tifosi.
“La coppa è vostra ragazzi, tutta vostra”, è chiaro il significato del gesto. I pochi che riuscivano a trattenere la commozione a questo punto si lasciano andare. I primi piani mostrati sui maxischermi nello stadio, in Piazza Duomo, all’Arena Civica, sui televisori negli Inter Club, nei soggiorni e nei bar, mostrano volti commossi e stravolti dalla gioia.


[Guarda nel filmato (circa 7'50'') Zanetti che depone la coppa]

Alle televisioni il capitano affida queste parole: “E' un'emozione unica, inseguivo questa coppa da quindici anni e arriva nel momento migliore. Mi mancava solo questa e sono felicissimo. L'Inter adesso è grandissima. Ho pensato a tante persone, soprattutto a Moratti che ci ha sempre creduto e ai tifosi. Facchetti e Prisco hanno giocato con noi questa partita”.
Cambiasso lì intorno ride felice e abbraccia Moratti per la dodicesima volta. Indossa una vecchia maglia, di quando non si scriveva ancora il nome sulla schiena. Ma c’è stampato il numero tre, ed è abbastanza.
Passa qualche ora, e la squadra sbuca dal tunnel nel prato del Meazza. Sono le 6:08. A quell’ora, sugli spalti ci sono poco meno di cinquantamila persone. La coppa è tra le mani del capitano e di Angelomario Moratti. La coppa passa di mano in mano, giri di campo, cori e saltelli. Per poco meno di un’ora la festa prosegue, poi è giorno pieno, il sole alle sette è già alto. Il 22 Maggio, questo indimenticabile 22 Maggio, è già storia.
Le cronache del giorno successivo, Domenica 23 Maggio, parleranno, come di dovere, del raduno della nazionale di Lippi, l’inizio di una nuova avventura mondiale. Che drammatico contrasto con l’epopea nerazzurra! La squadra di Lippi è imbottita di giocatori bolsi e fuori forma, il clima intorno è ostile e depresso. Il gruppo dei ventotto, che si radunano a Venaria (chissà come mai, a Torino) è assediato dai fischi e dagli insulti dei tifosi italiani, che non riescono proprio ad amare questa squadra.
Azzurri, si comincia male. Nei suoi cent’anni di vita la Nazionale di calcio fu accolta dopo un Mondiale con i fischi e, al ritorno dal Messico nel ’70, persino con i pomodori. Il salto di qualità rispetto al passato è che ci si è messi avanti con il lavoro e gli insulti hanno colto gli azzurri già al primo minuto del primo giorno di ritiro: a freddo, nel cortile della Reggia della Venaria dove una regia improvvida aveva previsto un bagno di folla diventato un bagno e basta. (..)
Da quando Lippi è tornato ct, l’Italia ha raccolto più contestazioni che elogi: i fischi di Cesena o gli inviti a lavorare di Parma stanno dietro l’angolo. C’è crisi di rapporti, crollo nell’immagine. [Marco Ansaldo, La Stampa, 24 Maggio 2010]
I resoconti di quella Domenica raccontano anche di Allegri nuovo allenatore del Milan, e si tutti si affrettano zelanti a precisare che Ronaldinho giocherà dietro le punte, come vuole Berlusconi. Cominciamo bene.
La notizia più malinconica è però la sconfitta 1-3 della Juventus a New York, contro una squadra locale, loro che dovrebbero dare spettacolo e inorgoglire le decine migliaia di tifosi accorsi. Gli juventini d’America assistono esterrefatti al cappotto, mitigato solo da un gol di Amauri a tempo scaduto.